Una conversazione con

Alex Locust

Community
maggio 2022

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Pronomi dichiarati: He/She/They

Quest’anno, nella stagione del Pride, rendiamo omaggio alle persone attiviste — passate, presenti e future — che si impegnano a promuovere la liberazione queer e pari diritti. In prima linea troviamo Alex Locust, consulente in riabilitazione e “glamputee” che si batte con orgoglio per sensibilizzare il mondo sul tema della giustizia per le persone disabili, un workshop alla volta.

Parlaci di te!

Sono unə glamputee nerə, birazziale e queer, e celebro e informo le persone dell’esistenza del movimento per la giustizia per le persone con disabilità, dove posso. Credo molto nelle parole di Grace Lee Boggs, “trasformati per trasformare il mondo”. Devo affrontare un lungo percorso di liberazione e guarigione, e voglio condividerlo su Instagram, in interviste su podcast o opportunità come questa per aiutare le persone a capire che non mi sono solo svegliatə con una mente tenace, informata, critica. Ci vuole tempo, impegno, lacrime e dolore per arrivare a questo punto. Voglio invitare le persone ad assistere a questo processo, per capire se è un modello possibile per il loro lavoro personale. Infine, se la liberazione queer (e quella di tuttə noi) non include le persone con disabilità, non è una vera liberazione.

Che cosa significa per te “glamputee”?

Glamputee è un po’ il mio alter ego supereroico, l’io a cui aspirare, una call to action personale. Avete presente quando nei film arriva la tua proiezione nel futuro a farti un discorsetto e dirti che tutto andrà bene? Ecco, questo per me è glamputee.

Glamputee è dichiarare che sono una persona amputata. Sono una persona queer di colore. Sono incredibile. Sarò felice, ma questo non vuol dire dimenticarsi del lavoro contro l’oppressione e a favore della liberazione. Spesso, la disabilità viene deliberatamente cancellata o resa invisibile. Non voglio che mi si dica: “Alex, hai fatto un ottimo lavoro” e si lasci da parte la mia identità. No: sono disabile e ho talento. Sono disabile e provocatoriə. Posso essere tutto questo, e questi aspetti non possono essere frammentati e dimenticati.

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Come descriveresti il tuo stile?

“Hard femme, soft butch”. Ho la barba. Ho i baffi. Ho tutto questo, ma amo anche la delicatezza, il vedo-non-vedo, le texture. Mi piace flirtare, mostrare un po’ di seno, indossare un crop top o un capo in rete. Essendo amputatə, il mio corpo può essere desessualizzato in diversi modi, quindi mi piace mostrare la parte superiore del mio corpo, che è progettata proprio per tirarmi su sempre. Mi piace anche mostrare la mia gamba, perché è bella e la uso sempre.

Credo nel massimalismo queer: colori vivaci, oppure una giacca corta con spalline imbottite in stile anni ‘80. A volte sono un po’ misteriosə, spesso molto femminile. Potete beccarmi in un outfit total pink o con un look monocromatico. Lo so, esagero con gli abbinamenti, ma li adoro. More is more.

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Come sei diventatə attivista?

È buffo: credo che molte persone emarginate siano attivistə, anche se non lo sanno. Essendo natə con una disabilità, mi sono dovutə rappresentare da sempre. Ho imparato sin da piccolə che se volevo che le mie esigenze di persona disabile fossero rispettate, avrei dovuto battermi in prima persona. Più tardi, all’università, ho collaborato con una compagna che stava organizzando corsi di sensibilità verso la disabilità. Non potevo crederci: potevo fare a livello professionale tutte le cose che da sempre facevo per le persone gratuitamente!

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Altre fonti di ispirazione?

Il sit-in 504 di San Francisco, in cui le persone disabili hanno rivestito il ruolo di decisorə politicə e supereroə, aprendo la strada per l’ADA (Americans with Disabilities Act). Non ho potuto ignorare questo richiamo; non potevo sapere che queste persone hanno combattuto per questi diritti e starmene lì con le mani in mano. Mi sono informatə sulle persone più radicali, come quelle di Sins Invalid, che sono persone BIPOC (persone nere, indigene e di colore) disabili che mettono in scena la sessualità e fanno della loro arte una forma di resistenza. Le loro opere mi hanno dimostrato che non devo solo limitarmi a insegnare: posso anche creare, fare. Da allora, mi sono apertə di più alle possibilità di crescita, sperando di poter essere un modello di possibilità per le altre persone.

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Adoriamo la tua piattaforma Sippin’ Saturdays a tal punto da invitarti a creare una sessione speciale per la campagna Levi's Pride di quest’anno. Qual è il concetto alla base della tua piattaforma Sippin’ Saturdays?

L’anno scorso ho visto che Luis Alejandro Tapia aveva organizzato una live su Instagram sulla Emergent Strategy di Adrienne Maree Brown. È stato incredibile vedere due persone di colore parlare di questo testo in una maniera così informale, sorseggiando due bicchieri di vino, e ho pensato che manchi tantissimo una cosa del genere sulla disabilità. Non si trattava di salire in cattedra, e questo mi ha davvero spintə a cercare di capire come adattare il formato al mio lavoro.

È così coinvolgente!

Ho notato che quando si parla di disabilità, si alzano muri e le persone diventano tese. Tuttə si preoccupano molto di dire la cosa sbagliata e perpetrare lo stigma. Ma sfruttando la passione di una persona (la moda, l’ambiente, la sessualità kink o la psicologia), posso riflettere su quello che sento e offrire una prospettiva su come la giustizia per le persone disabili emerge in quello che questa persona condivide, o su come potrebbe emergere meglio. Si tratta quindi di un lavoro incrociato di solidarietà. Insieme, costruiamo una conversazione su una base di umiltà. Non ho un copione, non pretendo di sapere tutto. È una conversazione. Magari chiacchieriamo davanti a un drink o in una festa alle 2 di notte. Possiamo divertirci. Possiamo non sapere.

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Bene, facciamo finta di essere a una festa alle 2 di notte e di iniziare una di queste conversazioni informali. Come la disabilità si intreccia con l’essere queer?

Penso che la disabilità sia un aspetto queer del corpo. Noi presumiamo che tutti i corpi-menti siano “normali”. Ma è chiaro che la normalità è una disabilità. Io amo pensare che la queerness sia una metafora per sfidare il presupposto che tutti i corpi e i corpi-menti siano fatti in un certo modo. Le persone con corpi non conformi sono più libere. Ma tuttə possiamo liberarci, se lo vogliamo.

Amo riflettere su questa cosa, perché è estremamente in linea con il mio percorso. Sono cresicutə pensando che la mia disabilità fosse l’identità più prominente che potessi sperimentare. Allora non ero in contatto con la mia identità queer come adesso, quindi sperimentavo di più il modo in cui il mondo mi vedeva e trattava come disabile. Mi ha insegnato molto sull’essere fissatə, sul subire microaggressioni, confrontarsi con sistemi non progettati per te, spazi ostili o violenti. Mi ha insegnato molto anche sulla capacità di adattamento, sulla resilienza e sul creare una comunità incentrata sul sostegno e la cura.

Il passaggio dall’essere non dichiaratə e confusə a gay a queer tra i 18 e i 27 anni è stato un vero e proprio viaggio. Quando ho iniziato a riconoscere di più la mia identità sessuale, mi sentivo molto a disagio nel mio corpo e non volevo affrontare la mia disabilità. La mia queerness è passata in prima linea. E quando ho iniziato di nuovo a pensare alla rappresentazione e all’orgoglio per la mia disabilità, la queerness (come spazio di abbondanza, fluidità e spettro) mi ha aiutata a considerare la mia disabilità come un valore personale e culturale, e non come un deficit.

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Parliamo di disabilità e moda.

Il discorso sulla disabilità è spesso molto clinico e focalizzato sulla funzionalità. Le uniche volte in cui le persone sono invitate a partecipare al dibattito è quando c’è qualcosa che non va, ad esempio se si cerca di creare una scarpa che possa essere allacciata anche dalle persone che non possono usare le mani o piegare le dita. Certo, questo è importante, ma se includiamo le persone disabili solo quando si parla di una mancanza, non permettiamo alle disabilità di diventare una forza generativa e creativa che amplia ed evolve il modo in cui pensiamo al corpo-mente. Se non coinvolgiamo le persone disabili, possiamo davvero parlare di moda innovativa?

Quando usavo la protesi, potevo decorarla con uno strato di tessuto da sigillare sottovuoto, di modo che non sembrasse pelle. Un amico mi ha regalato un tessuto con dei gattini laser spaziali, quindi ho sfoggiato una protesi cosmica per un po’. Un’altra volta, per un video di danza. ho indossato una tuta intera rosa lampone con delle frange sulle stampelle che creavano un originale effetto ondoso. Quando indosso gli shorts si crea uno spazio negativo, quindi ho deciso di creare una piccola frangia a sinistra, in modo da ottenere questo ornamento pendente che fruscia e crea un suono che le altre persone non riescono a fare. Se hai due gambe, non puoi fare queste cose. Io posso fare cose che gli altri non sono in grado di fare. L’incontro tra disabilità e moda potrebbe essere incredibile, artistico, all’avanguardia, e riguardare l’espressione e non il consumo. Perché non esplorare questa possibilità?

Come la tua identità intersezionale influenza il modo in cui ti muovi nel mondo?

Molte delle mie identità sono fluide, dipendono dal contesto. In alcuni casi la mia disabilità è evidente: mi manca un arto, è un dato di fatto. Ma in una call non potresti mai saperlo, a meno che non lo dica io. Siccome posso alzarmi e camminare, le persone intorno a me possono dimenticare quanto la mia disabilità possa influenzare il mio corpo o le microaggressioni che subisco.

Lo stesso vale per il mio essere nerə. Molte persone non percepiscono che ho origini nere. Quindi, non devo preoccuparmi della violenza della polizia. Non devo preoccuparmi di ricevere slur razzisti. Ma allo stesso tempo, vivo un trauma intergenerazionale. Mi fa male dover convincere le persone che la mia identità nera è abbastanza, e perché tutte queste cose mi colpiscono.

Allo stesso modo, se non mi metto lo smalto o mi vesto in modo vistoso, le persone possono considerarmi un uomo etero cis. È un privilegio potermi adattare se non voglio subire apertamente violenza, ma è sempre un modo di cancellare la mia autenticità e pensare di dovermi cambiare per vivere in questa società.

Queste tre identità sono il mio faro. Avvertire che nessuna di esse è abitualmente riconosciuta o celebrata nella società e nella cultura mi fa sentire incredibilmente solə, è molto doloroso. Ma mi sprona a ricordare che anche se devo affrontare delle difficoltà, ci sono persone che subiscono ingiustizie ancora peggiori.

Come ti batti per il cambiamento nella tua vita quotidiana?

Mi batto contro l’abilismo quando e dove posso. A volte mi sento un po’ unə guastafeste a continuare a interrompere le persone per chiedere di non dire “stupidə” o “pazzə”. Però preferisco essere unə guastafeste piuttosto che ingoiare il rospo. In realtà non si guasta la festa a nessuno: si interrompe un comportamento oppressivo. Io voglio essere unə guastafeste. Interverrò sempre quando una persona ha un comportamento offensivo o utilizza un linguaggio non inclusivo. Alimentate il vostro lato guastafeste.

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Come si fa a incorporare uno schema di disabilità nella comunità queer e nelle pratiche di attivismo?

Le persone queer disabili fanno parte della comunità. Punto. Il rispetto delle necessità relative all’accessibilità e la creazione di spazi queer accessibili devono essere affrontati prima. Parlando di questi aspetti in un’ottica di comunità, facciamo in modo che non siano solo le persone disabili a doversi battere perché i loro bisogni di accessibilità siano rispettati, siamo d’esempio alle altre persone e ci prepariamo al fatto che i corpi-menti e l’accessibilità devono cambiare.

Dobbiamo assicurarci che quando creiamo uno spazio, ospitiamo un incontro o organizziamo una protesta, mettiamo al centro i bisogni delle persone più marginalizzate non per pietà, carità o obbligo, ma per amore, gioia, celebrazione e gratitudine per come i membri disabili della comunità queer stanno rendendo la liberazione queer più complessa, sfaccettata, sostenibile, integra.

Ci sono tanti modi in cui possiamo riunirci per celebrare il lavoro che le donne trans di colore hanno fatto anni fa per opporsi all’oppressione. Voglio che lo facciamo in un modo non gerarchico, in cui debba essere necessariamente un leader, ma che sia solo una possibilità.

Ci sono persone del passato di cui vuoi raccogliere il testimone?

Ellis Haizlip, creatore di Soul, un programma di fine anni ‘60 che celebrava senza se e senza ma la Black Art. Questo è il mio obiettivo con Sippin’ Saturdays e Spill the Disaili-Tea. [Ellis] ha fatto sì che le persone del pubblico e di tutto il Paese adorassero la Black Art. Ha prodotto, gestito, accompagnato, ma alla fine, ə artistə erano ə protagonistə. Voglio sfruttare il mio privilegio per creare uno spazio per queste persone. Voglio fare quello che ha fatto Ellis e offrire loro un palcoscenico.

Anche Mama Cax, una modella disabile nera e attivista per le persone disabili. Indossava una protesi, usava le stampelle e trasudava davvero un senso di materializzazione. Amavo la sua presenza e come riusciva a entrare in relazione con il suo corpo, vorrei essere come lei.

Stacey Milberne Park è stata un esempio di attivismo da remoto ed è stata fondamentale per fornire aiuto alle persone disabili durante gli incendi in California. Lo ha fatto con più disabilità e altre sfide da affrontare. Si è davvero messa in gioco ed è stata una fonte di ispirazione con il suo amore e la sua generosità.

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C’è ancora tanta strada da fare, ma molto di quello che abbiamo ottenuto oggi avrebbe superato i sogni più fantasiosi delle persone queer del passato. Quali sono i tuoi sogni più radicali per la liberazione della comunità queer?

Voglio vedere danzatrici di go-go, artistə drag, performer e persone disabilə al centro delle celebrazioni del Pride. Voglio che ci liberiamo dall’idea che il Pride sia solo a giugno. Voglio che le persone disabili, queer e BIPOC della nostra comunità si sentano celebrate tutto l’anno. Non siamo una categoria secondaria, non siamo persone da includere perché bisogna farlo, ma perché siamo parte della comunità ed è bello così.

Sono sicurə che si sia detto in lungo e in largo, ma voglio ripeterlo: il Pride non dev’essere solo una festa. Non dev’essere solo un’occasione per bere con ə amicə. Il Pride può essere un’app. Il Pride può essere un “cuddle party” queer e disabile. Il Pride può essere la festa di una rivista. Il Pride può essere una campagna di raccolta firme. Il Pride può essere una fiera dell’artigianato. Ci sono tanti modi in cui possiamo riunirci per celebrare il lavoro che le donne trans di colore hanno fatto anni fa per opporsi all’oppressione. Voglio che lo facciamo in un modo non gerarchico, in cui non ci debba essere necessariamente unə leader, ma che sia solo una possibilità. Ecco il futuro che desidero per la liberazione queer, perché se non includiamo la giustizia delle persone disabili, allora non è la strada giusta.

Infine, che messaggio vorresti lasciare al mondo?

Voglio lasciare un messaggio di auto-espressione e arte che sia inequivocabilmente e orgogliosamente queer, nero, disabile, gioioso e legato al piacere. In ogni cosa che tocco e creo, voglio che le persone capiscano che anche quando la situazione si fa dura o complessa, io mi diverto e sono grata. Spero (e credo) che il mio messaggio sarà legato allo stare in una comunità in cui ci sono tante persone che fanno una cosa simile. Spero di ritrovarmi in una costellazione di personalità trans e grassə, di splendidə guaritorə indigenə e radicali nerə. Voglio che sia chiaro che queste persone sono la mia comunità e che la mia vita non sarebbe la stessa senza di loro. Sono persone che mi danno forza e mi fanno crescere, e l’investimento è reciproco. Siamo una comunità per tanti motivi, ma soprattutto per il nostro desiderio di creare un mondo più equo: uno in cui le generazioni future possano continuare a vivere felici, un mondo in cui il nostro rapporto con la Madre Terra ritrovi il suo equilibrio e in cui possiamo curare tutto il male che abbiamo fatto al pianeta e a noi stessə.


Questa intervista è stata modificata per questioni di spazio e chiarezza.